1987: in radio Rick Hasley canta “Never gonna give you up”, Whitney Houston rilancia con “I wanna dance with somebody”. Primo Levi muore suicida, i Simpson debuttano in tv, il Napoli di Maradona vince il primo scudetto della sua storia, nel cielo esplode una supernova visibile a occhio nudo. Mentre il mondo, sempre più globalizzato, corre frenetico verso la fine degli anni ’80, la vita di una giovane donna viene fermata per sempre. Il colpevole non è mai stato trovato, ad oggi non sappiamo chi ha ucciso Lidia Macchi.
MENTRE MORIVO è un podcast scritto e narrato da Marica Esposito con l’editing di Stefano DM.
Trascrizione del Podcast
Molti di questi avvenimenti che hanno lasciato il segno in un anno densissimo di eventi, Lidia non li conoscerà mai, perché è gennaio quando sparisce. Nelle foto pubbliche di lei, sorride e guarda altrove, ha un sorriso aperto, come se ridesse in generale e non a favore di camera. La testa è scompigliata da tanti ricci, lei ha solo 21 anni. È una ragazza molto credente, tanto da portare in borsa quella che sembra una lettera d’amore a uno spasimante coetaneo, la lettera invece Lidia la indirizza a Gesù: è un po’ una preghiera, un po’ una confessione. Frequenta il secondo anno di giurisprudenza a Milano e appena può torna a Varese dai genitori Giorgio e Paola, dal fratellino Alberto appena nato, ha anche una sorella, Stefania. Ma non si limita a studiare: frequenta le lezioni di nuoto, fa volontariato con gli scout, è attivissima nel gruppo di Comunione e Liberazione, un movimento cattolico che si occupa principalmente di organizzare raduni ed eventi di preghiera e che, ca va sans dire, nel corso dei decenni è stata spesso
oggetto di critiche.
L’ultimo Natale della sua vita, Lidia lo passa proprio con gli amici dell’associazione, festeggiano Capodanno insieme e poi vanno in gita ad Assisi. È qui che le vengono scattate le fotografie più felici. A Feste quasi finite, si ritorna a studiare, ed è quello che fa anche il 5 gennaio 1987. Passa la giornata come al solito, a sera decide però di andare a trovare la sua amica Paola, ricoverata all’ospedale di Cittiglio a causa di un brutto incidente. Lidia chiede quindi in prestito al padre l’auto, lui gliela presta immediatamente e le dà anche diecimila lire per la benzina, il serbatoio è in riserva: la saluta sicuro di vederla rientrare poco dopo. La ragazza arriva in perfetto orario per le visite, intorno alle 19 e 30, scambia qualche parola con l’amica, è serena, ma alle 20 si congeda: dice che non vuole fare tardi per la cena. È l’ultima volta che viene vista viva.
Alle 21, infatti, Lidia non è ancora rincasata e i genitori si preoccupano subito. Telefonano agli amici, a tutti i pronto soccorso della zona, infine denunciano la scomparsa. Dev’essere successo qualcosa proprio nel parcheggio dell’ospedale, perché la ragazza parte in macchina, ma in direzione opposta a quella per casa. Le ricerche iniziano presto il giorno seguente, un centinaio tra amici e volontari battono tutte le zone più impervie: boschi, parchi e qualsiasi luogo in cui sarebbe plausibile trovarla. Ma né di Lidia, né della panda con cui è uscita si hanno tracce.
Intanto, in procura, arrivano le prime segnalazioni. Qualcuno dice di averla vista solo poche ore prima alla stazione, intenta forse a guardare gli orari, forse ad aspettare qualcuno. Lidia quel giorno non sale su nessun treno e infatti torna a casa e prende l’auto per andare in ospedale.
Quindi perché era lì? Quattro donne, invece, raccontano di essersi imbattute in uomini decisamente loschi proprio nel parcheggio dell’ospedale nei giorni precedenti la scomparsa di Lidia: tra gli anni ’70 e ’80 in Italia l’eroina fa strage, e il problema è sentitissimo ovunque. Non è difficile incontrare tossicodipendenti barcollanti per strada o addirittura qualche giovane morto su una panchina, affiancato a un tappeto di siringhe. È proprio un giovane venticinquenne che viene segnalato da un paio di loro, si avvicina alle ragazze per chiedere soldi, ha i pantaloni sporchi di sangue, dice di esserseli sporcati mentre si faceva. Decisamente più inquietante è invece l’aggressione che denunciano le altre due: un uomo dai capelli ricci e neri e dei baffi folti che cerca di molestarle sempre allo stesso modo, chiede di accendere una sigaretta, si aggrappa alla portiera cercando di aprirla. In un modo o nell’altro, entrambe riescono a scappare ma viene redatto un identikit seguendo la tecnica del photofit: utilizzando, cioè, dei ritagli di fotografie per ottenere un volto realistico.
Dopo due giorni, le ricerche arrivano a una svolta. Sono le 10 e mezza di mercoledì 7 gennaio 1987: Roberto, Maria Pia e Antonio si addentrano tra le sterpaglie del Sass Pinì, una zona conosciuta per essere principalmente frequentata di notte da drogati e sex workers: ci si arriva dopo il passaggio a livello di Cittiglio, dietro l’ospedale, e in genere una ragazza come Lidia non ci avrebbe mai messo piede, il posto è desolato, pieno di rifiuti e riviste erotiche. È Maria Pia a notare per prima la panda, tremante mette un piede davanti all’altro, ma gli amici la bloccano, temono il peggio. Lidia è di fianco alla portiera, riversa in terra e uccisa da diverse pugnalate, a coprirla un vecchio cartone. C’è del sangue sul sedile del passeggero dell’auto, che è stata lasciata con i fari accesi, probabilmente per illuminare la fuga dell’assassino. La ragazza ha ancora la borsa infilata a tracolla e dentro c’è tutto, perfino le diecimila lire che sarebbero serviti per la benzina. È però vestita in modo inusuale: i collant sono infilati al contrario, i pantaloni sono invece dentro gli stivaletti, anche se quando era uscita li aveva fuori.
È chiaro che sia stata uccisa la sera stessa della scomparsa, il lunedì precedente, ma cos’è successo?
In attesa dell’autopsia le ipotesi sono diverse: Lidia potrebbe aver dato un passaggio a uno sconosciuto, per cortesia o sotto minaccia. Forse invece ha fatto salire un conoscente, un amico dell’associazione o un uomo più grande. Qualcuno voleva derubarla, o è stata uccisa in seguito a una violenza sessuale? Vengono interrogati tutti e il primo sospettato risulta essere don Antonio, il prete responsabile del gruppo scout frequentato da Lidia, che accorre sul luogo del ritrovamento per benedirne il cadavere. L’uomo viene torchiato per interminabili ore, sembra che il suo alibi non regga: lui dice di essere stato in canonica, i colleghi lo ricordano a una riunione, viene sbattuto sulle pagine dei giornali e già si urla al “mostro di Cittiglio”. A quanto risulta dall’esame autoptico Lidia è stata colpita da 29 coltellate con una lama corta, probabilmente un coltello da caccia e contestualmente all’omicidio, ma non è chiaro se con l’assassino stesso, ha perso la verginità, forse in modo consenziente. La dinamica dell’omicidio, ancora oggi sembra non essere chiara. In primis, la giovane potrebbe essere stata uccisa altrove, e poi abbandonata in quel boschetto buio e nascosto. Forse era seduta al lato del passeggero perché la prima pugnalata la colpisce alla mano sinistra, mentre cerca di difendersi. Poi l’assassino la prende al collo, forse Lidia si gira per aprire la portiera e scappare, quindi viene colpita alla schiena, al gluteo, alla coscia. Viene quindi abbandonata agonizzante.
È il 1987, non ci sono telecamere di sorveglianza, non ci sono celle telefoniche da analizzare, l’esame del DNA è alle sue prime fasi sperimentali. Agli inquirenti non resta che autorizzare la sepoltura di Lidia, dopo aver messo agli atti le poche prove a disposizione.
Una svolta, però, sembra arrivare proprio pochi giorni dopo il funerale, è una lettera anonima che per anni è stata analizzata in ogni particolare, contiene una poesia dal titolo “In morte di un’amica”. È il padre Giorgio a pensare subito che si tratti di una macabra confessione e così la consegna agli investigatori: nella lettera sembra ci siano riferimenti velati all’omicidio, dalla perdita della verginità di Lidia, all’arrendersi alla volontà del destino. In fondo c’è un simbolo particolare di forma rotonda, che sia la firma dell’assassino? Nessuno ne rivendica la paternità, e sulla vicenda cade di nuovo il silenzio. La storia di questa giovane ventunenne barbaramente uccisa mentre tornava a casa in un lunedì qualsiasi, però, smuove le coscienze di tutta Italia: a Novembre, dagli studi televisivi della Rai, Enzo Tortora mentre conduce la trasmissione Giallo, lancia una proposta che ha dell’incredibile. Ha da poco letto che in Inghilterra, grazie al cosiddetto “test per rilevare l’impronta genetica” – lo stadio iniziale delle moderne analisi del DNA – è stato possibile assicurare alla giustizia l’assassino di due ragazze. “Sarebbero disposti, gli abitanti di Varese, a farsi testare? Basta una goccia di sangue.”
Una provocazione a cui rispondono in tantissimi, così per la prima volta nella storia italiana il materiale organico prelevato dal corpo di Lidia viene mandato in un laboratorio inglese e confrontato con il sangue delle persone coinvolte nell’indagine: Giuseppe Sotgiu, un amico e coetaneo della ragazza (poi fattosi prete), don Antonio, Giovanni Bagarella, un uomo denunciato dalla moglie e un sospettato già in carcere per stupro.
I risultati sono tutti negativi, così il pm viene destituito dal caso e sulla storia di Lidia cala il silenzio.
5 Novembre 2009, Cocquio Trevisago, vicino Varese. La casa di Carla Molinari è silenziosa: la donna di 82 anni vive sola in una villetta, qualcuno si aggira tra i corridoi, lascia delle impronte senza soluzione di continuità, sparge per terra dei mozziconi di sigaretta. Finché non squilla il telefono, è un’amica che la cerca. Carla viene ritrovata uccisa solo qualche ora dopo, l’assassino l’ha prima strangolata, poi accoltellata. Infine, le ha mozzato entrambe le mani e ha cercato di decapitarla, prima di essere disturbato dal suono del telefono. Il colpevole si trova subito, è un imbianchino di 58 anni che abita a Varese, si chiama Giuseppe Piccolomo. Gli inquirenti lo arrestano con prove schiaccianti: le impronte rilevate sulla scena combaciano con le sue, viene collocato nella villa di Carla dalle celle telefoniche e un testimone racconta di averlo visto raccogliere mozziconi di sigaretta in un centro commerciale. Piccolomo, al momento dell’arresto, ha anche dei graffi in viso: l’uomo ama guardare in tv serie investigative e ha probabilmente pensato di tagliare le mani a Carla per evitare che sotto le unghie venisse rinvenuto il suo DNA. Non è bastato a salvarlo dall’ergastolo, che sconta tutt’ora.
È in questo momento che questa storia si intreccia con quella di Lidia Macchi. Le figlie di Piccolomo, durante il processo del 2013, accusano il padre di maltrattamenti, dicono che più volte si è definito come “il mostro di Cittiglio” e che è solito minacciarle dicendo che un giorno o l’altro le avrebbe uccise come aveva fatto con Lidia. Avanzano anche l’ipotesi che i cartoni ritrovati sul corpo della giovane potessero essere proprio dell’uomo, che li conserva in garage per poi usarli durante i lavori da imbianchino. Quando gli inquirenti aprono il fascicolo dell’omicidio Macchi e ritrovano quel vecchio photofit quasi non riescono a crederci: l’uomo dell’identikit è identico a Piccolomo. Certo, la somiglianza è ragguardevole, l’uomo viveva nei pressi del boschetto luogo del ritrovamento di Lidia e ha dei precedenti: non solo Carla, potrebbe aver ucciso anche la moglie, trovata carbonizzata in auto nel 2003. Eppure entrambi gli omicidi avrebbero un movente economico, Lidia invece non è stata derubata.
L’ultima, incredibile svolta, accade nel 2014. La poesia “In morte di un’amica” viene resa pubblica e diffusa da tv e giornali. È mentre sfoglia un quotidiano che Patrizia Bianchi riconosce la calligrafia di un vecchio amico, così si precipita in procura. Chi avrebbe scritto la lettera, dice, è Stefano Binda, all’epoca conoscente di Lidia perché entrambi nell’ambiente di Comunione e Liberazione. Viene fuori, infatti, che quello strano simbolo apposto come firma è proprio il simbolo dell’associazione, e che tutti i ragazzi lo utilizzavano come marchio di appartenenza.
Binda viene ufficialmente iscritto nel registro degli indagati il 15 gennaio 2016. Contro di lui non ci sono molte evidenze, d’altronde sono passati 29 anni dall’efferato omicidio, Patrizia negli interrogatori lo descrive però come un’intellettuale, un’amante della scrittura, molto devoto e soprattutto dedito all’eroina. Lui si difende dicendo che al momento dell’omicidio stava passando le Festività Natalizie a Pragelato. L’assioma su cui sembra basarsi tutto il processo è che l’autore della poesia è di certo l’assassino, e se la calligrafia è quella di Binda, allora è Binda ad aver ucciso Lidia Macchi. E quindi via di perizie grafolofiche: l’accusa si dice certa che la scrittura sia la sua, la perizia della difesa lo nega totalmente.
Il processo si conclude in primo grado con una condanna all’ergastolo e in Cassazione con l’assoluzione piena: nel mezzo si è scoperto, grazie alle parole dell’allora incaricato di analizzare i reperti rilevati sul cadavere di Lidia, che nel 1987 era stato impossibile isolare il DNA ritrovato e che i vetrini contenevano troppo poco materiale per esaminarlo con le tecnologie dell’epoca.
Nel 2000 i vestiti di Lidia e i 13 vetrini contenenti liquido seminale e altre tracce biologiche sono stati distrutti dietro ordinanza del Tribunale di Varese, dicendo così addio per sempre a un’ipotetica prova regina.
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