Una Fiat scura col fanalino rotto e la scritta “vendesi” é l’incognita che ancora gira intorno alla storia delle bimbe di Ponticelli. Nunzia e Barbara sono due bambine di 7 e 10 anni quando scompaiono per sempre dal cortile vicino casa, per poi essere trovate brutalizzate qualche giorno dopo. E’ il 1983 e dopo 30 anni il caso è tutt’altro che chiuso.
MENTRE MORIVO è un podcast scritto e interpretato da Marica Esposito. Montaggio, produzione e sound design di Stefano DM.
Trascrizione del Podcast
La terra in cui ci addentriamo con la nostra storia è una terra di camorra, le faide tra famiglie sono il brusìo che mai si tace nel sottofondo di altre vite che vorrebbero vivere tranquille.
Eppure la storia che voglio raccontarvi, niente ha a che fare con la mafia: certo, ha molto di omertà e malavita, ma anche e soprattutto mala giustizia. State ascoltando Mentre Morivo, storie di donne uccise e lasciate senza giustizie e le donne – anzi, le bimbe – sono quelle di Ponticelli: Nunzia Munizzi e Barbara Sellini.
Partiamo dalla fine, è il 2010 e tre uomini, Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo dopo 27 anni di detenzione vengono scarcerati ma non si nascondono, non cercano una nuova vita o un cambio nome, continuano a richiedere ancora e soltanto una cosa: la revisione del caso. Hanno degli alibi, delle nuove prove e a detta loro l’atmosfera in cui si svolsero le indagini fu quantomeno particolare.
La storia con cui la loro vita si è legata a doppio filo è quella di Nunzia e Barbara, due bambine di 7 e 10 anni amiche inseparabili. Vivono nel rione INCIS di Ponticelli, un quartiere periferico di Napoli, un agglomerato di case e polvere dove gli svaghi sono pochi, soprattutto per chi è più piccolo: i grandi si intrattengono come possono, spesso con alcol e droghe. E’ il 2 luglio 1983 è domenica ed è sera, ma il sole non intende calare. Dopotutto l’indomani non c’è scuola. Nunzia e Barbara giocano spesso nel piazzale antistante le loro case, le mamme si affacciano per dar loro un occhio, si calano i “panari” (i cesti in vimini) quando serve qualcosa e se è pronto da mangiare si urla dal balcone. La vita, nei rioni, è di tutti e di nessuno.
Le due bambine aspettano in cortile l’arrivo di Silvana, un’altra amica, perché insieme devono andare a un incontro speciale, almeno così pensano. Hanno con loro una busta piena di merendine, nient’altro. Silvana non arriva la nonna le ha negato il permesso allora le due si incamminano verso lo stradone: da quel momento nessuno le rivedrà più vive. I due corpicini di Nunzia e Barbara vengono trovati il giorno dopo uno sopra l’altro, legati alla bell’e meglio con una corda, straziati e semi carbonizzati in mezzo ai rifiuti nell’alveo del fiume Pollena di Volla, come oggetti da disfarsi.
Il quartiere insorge si cerca il mostro. I familiari e i conoscenti sono tutti straziati ma in particolar modo la mamma di Barbara, Mirella Grotta, chiede aiuto dai giornali all’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Sono anni delicati, bisogna fare presto e così si fa. Le indagini partono a tappeto, vengono interrogati tutti, soprattutto i bambini, quasi tutti senza l’aiuto di psicologi e a volte totalmente soli sopraffatti dalla paura dell’incerto.
La prima a parlare è proprio Silvana, che racconta di essere stata invitata dalle due a un appuntamento con Gino, che loro chiamavano col soprannome di “Tarzan tutte lentiggini” per la sua corporatura possente e le efelidi sul viso. Questo Gino, secondo la bambina, era solito girare nel rione e guidava una Fiat 500 di colore scuro. Subito dopo è un’altra bambina a rivelare spontaneamente maggiori informazioni: Antonella Mastrillo, coetanea di Nunzia e Barbara, dice di aver visto allontanarsi le due amiche quella sera dirette verso una concessionaria con numerose auto esposte. Antonella chiamò Nunzia cercando di attirare la sua attenzione ma questa filò dritto, e quando fu Barbara a cercare con gli occhi Antonella, Nunzia le prese il viso tra le mani e la invitò a camminare. In questa concessionaria era parcheggiata una Fiat 500 blu con un fanale rotto e la scritta “vendesi” che dopo poco avrebbe aperto la portiera per farle salire.
Le prime descrizioni portano gli inquirenti sulle tracce di Corrado Enrico, un venditore ambulante chiamato da tutti “Maciste” e proprietario proprio di una 500 scura con un fanalino rotto. Viene interrogato perché solito intrattenersi con ragazzini e bambine e in varie deposizioni conferma: “Da circa un paio d’anni sono avvezzo all’uso eccessivo di bevande alcoliche ed ogni volta che ne faccio uso creano in me una confusione mentale che mi porta a compiere atti abnormi e osceni con persone di sesso femminile o bambine.” In un’altra deposizione confessa anche di frequentare il ponte sotto il quale le bambine sono state gettate, perché luogo appartato dove aveva più volte tentato di attirare delle vittime ideali. Nonostante gli indizi contro Corrado Enrico siano preoccupanti e concordanti, sicuramente meritevoli di un approfondimento, l’indagine su di lui non prosegue e tentenna, tanto che avrà il tempo di sbarazzarsi dell’auto facendola rottamare in uno sfascia-carrozze. Nel frattempo la moglie smentisce il suo alibi, quella sera non erano insieme.
Archiviata la posizione di Enrico, altri ragazzini della zona vengono convocati in caserma per identificare delle foto: quella di Vincenzo Esposito, un ragazzo che era stato visto chiacchierare qualche giorno prima con Nunzia e Barbara, viene mostrata sia ad Antonella Mastrillo che ad un altro bambino, Ernesto Anzovino ed entrambi sembrano ritenere plausibile la sua colpevolezza. Vincenzo Esposito non ha un’alibi e dichiara di non sapere nulla, pur confermando di aver visto più volte nel rione quella Fiat scura con il fanalino rotto.
Le ricerche, comunque, si allargano: vengono interrogati i familiari di tutti i bambini possibili testimoni. Interessante è la storia del fratello di Ernesto, Luigi detto Gino, quest’ultimo è un ragazzo instabile mentalmente e accusato di diversi reati a sfondo sessuale, non ultimo quello ai danni della sorella che prova a stuprare e in seguito accoltella. Qualche anno dopo la fine del processo si suiciderà buttandosi di sotto alla notizia dell’arrivo dei Carabinieri, probabilmente allertati dal suo aver violato l’obbligo di soggiorno.
Comunque è un altro familiare che cambierà per sempre l’andamento della storia. E’ il fratello di Antonella, la testimone più attendibile, che fa la dichiarazione finale. E’ settembre e Carmine Mastrillo, dopo aver dichiarato più volte di non saper nulla, accusa tre suoi amici: Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo che vengono subito arrestati. A quanto pare i tre avevano rapito le bambine per poi violentarle e ucciderle, alle 20 e 30 erano già in un locale di Volla a confessargli il fatto, intimandogli di non raccontarlo in giro. Un’ora per seviziare, uccidere, nascondere i cadaveri e soprattutto pulire l’auto.
La perizia autoptica redatta dal professor Alfonso Zarone racconta però un’altra storia: Barbara Sellini è stata ferita almeno dodici volte, Nunzia Munizzi diciannove ma entrambe le cifre sembrano al ribasso, visto che i corpi presentavano delle ustioni più o meno estese. Sui corpi le ferite erano state inflitte in maniera disomogenea: alcune sferrate a maggior profondità, per uccidere, altre solo superficiali, come a voler attingere piacere da un atto sadico e duraturo. Per quanto riguarda l’arma – mai ritrovata – si parla di un’arma bianca da punta e taglio, probabilmente un coltello a serramanico lunga almeno dieci centimetri e larga due. Barbara è morta per il recidersi della carotide, Nunzia fu accoltellata al cuore, nella parte posteriore.
Quando il processo si apre, Carmine Mastrillo è tutt’altro che fermo sulla sua deposizione: prima afferma, poi ritratta, poi afferma ancora e quando cerca di ritrattare gli viene intimato l’arresto per falsa testimonianza e allora conferma ancora. Gli serve qualche sera in cella a riflettere con un pentito di camorra, lo stesso che accusò Enzo Tortora, per rivelare tutto: Dice che in verità ad aver aiutato i tre ad occultare i cadaveri sia stato Salvatore la Rocca, fratello di Giuseppe, che li avrebbe raggiunti con la 127 beige di proprietà di quest’ultimo. L’auto viene quindi posta sotto sequestro e analizzata a fondo: non c’è nessuna traccia delle due bambine ma un fazzolettino sporco marginalmente di sangue. Giuseppe si difende dicendo di essersi ferito a un piede e di aver solo tamponato per qualche minuto il taglio. La traccia ematica risultò essere del gruppo A, lo stesso di Barbara. E lo stesso di Giuseppe.
A un certo punto, anche Salvatore La Rocca conferma: i tre amici avevano ucciso le bambine in un fondo terriero con l’ausilio di un ferro appuntito, poi l’avevano chiamato per bruciare e disfarsi dei corpi. Neanche questa confessione sempre essere credibile e infatti accusa gli inquirenti di averlo portato in una vera e propria camera delle torture e di averlo minacciato di gettarlo in un pozzo se non avesse accusato gli altri tre, di cui in effetti non furono neanche mai verificati gli alibi, ma i proprietari del famoso fondo terriero dove si sarebbe svolto il fatto negano assolutamente sia stato possibile: quella sera rimasero a lavorare fino a tardi e non videro né sentirono alcunché. D’altronde non furono rinvenute tracce di sangue.
Anche in ambito processuale le prove scarseggiano: perché si parla di un ferro, quando l’autopsia ha identificato l’arma del delitto con un coltello a serramanico? Dove sono state uccise le bambine e quando sono state gettate sotto il ponte? Orologio e mappe alla mano, risulta materialmente impossibile che Salvatore La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo abbiano potuto fare tutto quello di cui vengono accusati in un’ora scarsa.
E’ l’11 aprile del 1986, mentre Battisti torna in auge con un nuovo disco, il trio viene condannato all’ergastolo con l’aggravante dell’occultamento di cadaveri, condanna che tocca anche a Salvatore La Rocca. Nonostante la difesa continui a richiedere la revisione del caso, i tre gradi di giudizio si concludono nel medesimo modo: fine pena mai. I mostri di Ponticelli, per la verità processuale, sono loro. All’epoca dei fatti i ragazzi avevano tra i 18 e i 21 anni e maggior parte della vita l’hanno passata in carcere. Hanno cercato di ritagliarsi della normalità, nella vita tra le sbarre, oggi hanno delle compagne e dei figli: è per loro che cercano ancora giustizia, per il loro nome, per Nunzia e Barbara, per la verità. Non hanno chiesto risarcimenti in denaro.
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